Ars Bellica

Battaglie In Sintesi

Battaglia di Tuscolo e Lanuvio

434 a.C.

Le Gens d'appartenenza dei consoli

Gens Sulpicia (Quinto Sulpicio Camerino Pretestato)

La gens Sulpicia fu una delle più antiche famiglie patrizie di Roma, a cui appartennero una serie di uomini illustri, dalla fondazione della Repubblica fino al periodo imperiale. Il primo membro della gens che raggiunse il consolato solo nove anni dopo la cacciata dei Tarquini fu Servio Sulpicio Camerino, nel 500 a.C., mentre l'ultimo nome ad apparire nei Fasti consolari fu quello di Sesto Sulpicio Tertullo nel 158. Anche se di origine patrizia, alla famiglia appartennero anche membri plebei, alcuni dei quali potrebbero essere stati discendenti di liberti della gens. I Sulpicii adottarono di solito solo quattro praenomina: Publius, Servius, Quintus, e Gaius. L'unico altro praenomen che compare in epoca repubblicana è Marcus, conosciuto come il padre di Gaio Sulpicio Petico, cinque volte console durante il IV secolo a.C. L'ultimo dei Sulpicii conosciuto per avere ricoperto la carica di console aveva il praenomen Sextus, un praenomen altrimenti sconosciuto nella gens. I cognomi dei Sulpicii durante la Repubblica furono Camerino Cornuto, Galba, Gallo, Longo, Patercolo, Petico, Pretestato, Quirino, Rufo e Saverrione. Oltre a questi cognomina, ne esistono alcuni appartenenti a liberti e ad altre persone sotto l'Impero. Sulle monete si trovano i cognomi Galba, Platorino, Proclo e Rufo. La piccola famiglia dei Praetextati, discendente dai Camerini, apparve nella seconda metà del V secolo a.C. Probabilmente derivava il suo nome dall'aggettivo praetextatus, ovvero rivestito della toga praetexta, un indumento orlato di porpora indossato dai giovani e dai magistrati.


Gens Manlia (Marco Manlio Capitolino)

I Manlii furono una gens romana patrizia, i cui membri ebbero incarichi nelle magistrature per tutta la durata della Repubblica romana. Ebbero come cognomen Capitolino, Torquato e Vulsone e, più raramente, Cincinnato e Acidino.

La genesi

L'anno successivo furono rieletti gli stessi consoli: Giulio per la terza volta, Verginio per la seconda. Valerio Anziate e Quinto Tuberone riportano invece che i consoli di quell'anno furono Marco Manlio e Quinto Sulpicio. Però, nonostante la discrepanza, sia Tuberone che Macro citano come fonte i libri lintei. Inoltre nessuno di questi due autori nasconde che gli antichi scrittori parlavano per quell'anno di tribuni militari. Mentre Licinio segue, senza alcuna riserva, i libri lintei, Tuberone è incerto su quale sia la verità. Perciò, tra le tante questioni rimaste irrisolte, perché riguardano tempi lontani, mettiamoci anche questa. Dopo la presa di Fidene, l'Etruria viveva in stato d'allarme: infatti, in seguito a un tale massacro, erano terrorizzati non soltanto i Veienti, ma anche i Falisci, i quali, benché non li avessero sostenuti quando avevano ripreso le ostilità, ricordavano di essere stati al loro fianco agli inizi della guerra. Così, quando questi due popoli inviarono ambasciatori alle dodici città confederate e ottennero che si convocasse un raduno di tutte le genti etrusche presso il tempio di Voltumna, il senato, presentendo gravi torbidi, ordinò di nominare per la seconda volta dittatore Mamerco Emilio. Questi scelse Aulo Postumio Tuberto come maestro della cavalleria. Così si diede inizio ai preparativi di guerra con uno sforzo tanto più grande della volta precedente, in quanto maggiore era il pericolo provenendo dall'intera Etruria e non da due popoli. Ma questa faccenda finì per essere più tranquilla di quanto tutti si aspettassero. Alcuni mercanti riferirono che ai Veienti era stato negato ogni aiuto e che erano stati invitati a proseguire unicamente con le loro forze la guerra che avevano scatenato per iniziativa personale e a non cercare nelle avversità come alleati coloro con i quali non avevano voluto dividere la speranza, non ancora compromessa, di successo. Di conseguenza il dittatore, per dimostrare di non essere stato eletto invano, pur non avendo più la possibilità di conquistare gloria in guerra, ma desiderando compiere ugualmente in pace qualche impresa che suggellasse per sempre nel ricordo la propria dittatura, studiò il modo di indebolire la censura. E questo sia perché ne giudicava eccessivo il potere, sia perché era infastidito, più ancora che dall'importanza, dalla durata di quella carica. Così, dopo aver convocato l'assemblea, disse che gli dei immortali si erano assunti il compito di provvedere all'interesse della repubblica all'esterno e di rendere tutto sicuro. Quanto a lui, avrebbe fatto il necessario all'interno delle mura per salvaguardare la libertà del popolo romano. Ora, la maggiore garanzia di libertà era che le cariche più importanti non si protraessero troppo a lungo e che si ponesse un limite di tempo a quelle magistrature delle quali non si poteva limitare l'autorità. Mentre le altre cariche erano annuali, la censura era invece quinquennale; era gravoso vivere per tanti anni, per una gran parte dell'esistenza, sottoposti alle stesse persone. Per questo egli avrebbe presentato una legge che riduceva la durata della censura a non più di un anno e mezzo. Il giorno successivo, quando la legge venne approvata col consenso quasi unanime del popolo, il dittatore disse: "Perché voi, o Quiriti, abbiate la prova di quanto mi siano sgraditi gli incarichi che durano troppo a lungo, rinuncio alla dittatura." Deposta la sua magistratura dopo aver fissato un limite a quella altrui, fu riaccompagnato a casa tra le dimostrazioni di gioia e il plauso del popolo. Ma avendo i censori sopportato di malanimo che Mamerco avesse sminuito l'importanza di una magistratura del popolo romano, lo radiarono dalla sua tribù e lo iscrissero tra gli erarii, tassandolo per un censo otto volte maggiore. Riferiscono che Mamerco abbia sopportato il colpo con grande forza d'animo, dando maggiore importanza alla causa di quella umiliazione che non all'umiliazione stessa. I capi dei patrizi, benché contrari a ridurre il potere della censura, rimasero colpiti da questo esempio di durezza censoria, perché ciascuno vedeva che sarebbe stato soggetto passivo della censura più spesso e più a lungo che non soggetto attivo. Sta di fatto che - almeno stando a quanto si racconta - l'indignazione del popolo arrivò a un punto tale che dovette intervenire Mamerco, con la sua autorità, per proteggere i censori dalla violenza della folla. Continuando a frapporre ostacoli, i tribuni della plebe riuscirono a impedire i comizi per le elezioni consolari. E alla fine, quando si era ormai prossimi all'interregno, ebbero la meglio ottenendo che si eleggessero i tribuni militari con potere consolare. Ma quella vittoria non fu premiata, come si sperava, dall'elezione di alcun plebeo: tutti gli eletti, Marco Fabio Vibulano, Marco Folio e Lucio Sergio Fidenate, erano patrizi. Nel corso di quell'anno una pestilenza distrasse l'attenzione da tutti gli altri problemi. Perché la popolazione potesse guarire venne fatto voto di erigere un tempio ad Apollo. I duumviri, consultando i libri sibillini, tentarono molte vie per placare l'ira degli dei e per allontanare dal popolo le cause dell'epidemia. Ciononostante le perdite furono ingentissime in città e nelle campagne, per il flagello che colpiva sia gli uomini sia il bestiame. Temendo che all'epidemia seguisse anche la fame, visto che i contadini non erano stati risparmiati dal contagio, si mandò a cercare frumento in Etruria, nell'agro Pontino, a Cuma e alla fine anche in Sicilia. Non ci furono accenni alle elezioni consolari; vennero eletti tribuni militari con potere consolare Lucio Pinario Mamerco, Lucio Furio Medullino e Spurio Postumio Albo, tutti patrizi. Quell'anno la violenza dell'epidemia diminuì e non si rischiò nemmeno di rimanere senza frumento, grazie alle precauzioni prese in anticipo. Nelle assemblee dei Volsci e degli Equi e in Etruria presso il tempio di Voltumna in Etruria si parlò di muovere guerra. Ma in quest'ultimo raduno si decise di rinviare le operazioni all'anno successivo e si stabilì, con un decreto, di evitare ogni assemblea prima di allora, benché i Veienti si fossero lamentati sostenendo che sulla loro città incombeva la stessa sorte della distrutta Fidene. Nel frattempo a Roma i capi della plebe, che già da tempo nutrivano la vana speranza di ottenere cariche più importanti, mentre all'esterno vi era pace, cominciarono a organizzare riunioni nelle case dei tribuni. Là discutevano piani segreti e si lamentavano di essere tenuti dalla plebe in così poco conto che, pur essendo stati eletti per tanti anni dei tribuni militari con potere consolare, nessun plebeo era mai arrivato a ricoprire quella carica. I loro antenati avevano visto lontano impedendo ai patrizi di accedere alle magistrature plebee, altrimenti si sarebbero trovati dei patrizi come tribuni; a tal punto erano disistimati dai loro, ed erano disprezzati dalla plebe, non meno che dai patrizi. Alcuni giustificavano la plebe scaricando ogni colpa sui patrizi: si doveva ai loro intrighi elettorali e ai loro raggiri se alla plebe era preclusa la strada verso quella magistratura. Se alla plebe veniva concesso di riprender fiato dalle loro preghiere miste a minacce, andando alle urne essa si sarebbe ricordata dei propri uomini e, ottenuto il loro sostegno, sarebbe arrivata a conquistare anche il potere. Così, per eliminare gli intrighi elettorali, si stabilì che i tribuni presentassero una legge che vietava ai candidati di indossare vesti bianche. Oggi sembrerà una cosa di poco conto e a stento si potrà prenderla sul serio. Ma in quei tempi scatenò uno scontro furibondo tra patrizi e plebei. Alla fine i tribuni riuscirono a far approvare la legge. Ed era evidente che la plebe irritata avrebbe sostenuto i suoi. Ma perché non le fosse concesso di agire liberamente, il senato decretò che si tenessero i comizi per l'elezione dei consoli. Il pretesto fu la rivolta di Volsci ed Equi, riferita a Roma da Latini ed Ernici. Vennero eletti consoli Tito Quinzio Cincinnato, figlio di Lucio - lo stesso a cui si aggiunge il soprannome di Peno -, e Gneo Giulio Mentone. La guerra e le sue paure non furono rimandate oltre. Fatta la leva militare ricorrendo a una legge sacrata - che presso quei popoli era lo strumento di gran lunga più efficace per l'arruolamento forzato delle truppe -, da entrambi i paesi si misero in marcia due forti eserciti che si congiunsero sull'Algido. Qui Equi e Volsci si accamparono in punti diversi e i rispettivi comandanti si dedicavano con una meticolosità senza precedenti alla costruzione di fortificazioni e all'addestramento degli uomini. E quando a Roma arrivarono queste notizie, il panico si fece più grande. Il senato decise allora di nominare un dittatore perché quei popoli, nonostante le numerose sconfitte, si stavano adesso preparando a una nuova guerra con uno spiegamento di mezzi senza precedenti; e poi una parte della gioventù romana se l'era portata via la pestilenza. Le cose che spaventavano maggiormente erano i difetti dei consoli, il loro disaccordo e i contrasti durante tutte le assemblee. Secondo alcuni autori la ragione per la quale si nominò un dittatore fu una sconfitta subita sull'Algido da quei consoli. Una cosa risulta chiara: nonostante il dissenso su altri problemi, su di uno i consoli avevano identiche vedute, e cioè nell'opporsi, contro il volere dei senatori, alla nomina del dittatore. Ma quando arrivarono notizie, una più terribile dell'altra, e i consoli non rispettavano le decisioni del senato, Quinto Servilio Prisco, che aveva ricoperto egregiamente le massime cariche, disse: "Data l'estrema gravità della situazione, è a voi, o tribuni della plebe, che il senato fa appello perché in questo momento così pericoloso per la repubblica, usando la vostra autorità, costringiate i consoli a nominare un dittatore." Sentendo queste parole, i tribuni, convinti che si presentasse l'occasione per aumentare la loro autorità, dopo essersi consultati a parte dichiararono a nome del collegio che i consoli dovevano attenersi scrupolosamente alle direttive del senato. Se poi i consoli avessero continuato a opporsi alla volontà unanime del più importante tra gli ordini sociali, allora ne avrebbero ordinato l'arresto. I consoli preferirono cedere ai tribuni piuttosto che al senato. Ricordarono che i senatori avevano tradito le prerogative della massima magistratura e che il consolato veniva fatto passare sotto il giogo del potere tribunizio, dal momento che i consoli potevano subire le imposizioni di un tribuno per via del suo potere, e perfino essere condotti in carcere (e c'era forse qualcosa che un privato cittadino potesse temere di più?). Siccome i colleghi non erano riusciti a intendersi nemmeno su questo, il compito di nominare un dittatore toccò in sorte a Tito Quinzio. Egli nominò il suocero Aulo Postumio Tuberto, un comandante intransigente, il quale a sua volta designò come maestro della cavalleria Lucio Giulio. Si ordinò subito la leva militare e la sospensione dell'attività giudiziaria, e in città non ci si occupò di altro che dei preparativi di guerra. L'esame delle richieste di esonero dal servizio militare viene rinviato a dopo la guerra. Così anche quelli che erano incerti decidono di arruolarsi. A Ernici e Latini fu imposto di fornire soldati ed entrambi i popoli obbedirono scrupolosamente al dittatore. Tutti questi preparativi furono portati a termine con estrema rapidità. Il console Gneo Giulio venne lasciato a difesa della città. Al maestro della cavalleria Lucio Giulio venne invece affidato il compito di provvedere alle più immediate necessità belliche, in modo che la mancanza di qualcosa non costringesse le truppe a rimanere nell'accampamento. Il dittatore, ripetendo la formula suggeritagli dal pontefice massimo Aulo Cornelio, promise in voto, per la guerra appena scoppiata, di indire giochi solenni. Poi, dopo aver diviso le truppe con il console Quinzio, lasciò Roma e raggiunse il nemico. Appena videro che i due accampamenti dei nemici erano posti a poca distanza l'uno dall'altro, i comandanti romani decisero anch'essi di accamparsi a circa un miglio di distanza, il dittatore nella zona di Tuscolo e il console verso Lanuvio. Così i quattro eserciti e le rispettive fortificazioni avevano nel mezzo una pianura, abbastanza vasta non solo per le scaramucce che precedono la battaglia, ma anche per lo spiegamento delle schiere da entrambe le parti.

La battaglia

Dal momento in cui gli accampamenti vennero posti l'uno di fronte all'altro, fu un continuo susseguirsi di piccoli scontri; il dittatore era contento che i suoi uomini misurassero le loro forze e, sperimentando il successo in queste rapide sortite, nutrissero speranze nella vittoria finale. I nemici, abbandonata ogni speranza di avere la meglio in una battaglia regolare, nella notte assalirono l'accampamento del console, affidandosi al caso e al rischio. Il clamore sorto all'improvviso svegliò dal sonno non solo le sentinelle del console e tutto il suo esercito, ma anche il dittatore. In quell'occasione, in cui le circostanze richiedevano una reazione immediata, il console dimostrò di non difettare né di coraggio né di accortezza: con parte dei suoi uomini rinsaldò i posti di guardia agli ingressi e dispose in cerchio il resto delle truppe a protezione della trincea. Nell'altro accampamento, quello del dittatore, essendoci meno trambusto, fu più facile considerare il da farsi. Vennero subito inviati rinforzi al campo del console, affidandone il comando al luogotenente Spurio Postumio Albo. Il dittatore invece, a capo di un contingente, con una breve diversione raggiunge una posizione defilata rispetto al luogo di attacco per assalire il nemico di sorpresa. A comandare l'accampamento lascia il luogotenente Quinto Sulpicio, mentre all'altro aiutante Marco Fabio affida la cavalleria, ordinandogli però di non muoversi prima dell'alba, perché sarebbe stato difficile mantenere il controllo di quelle truppe nella confusione della notte. Tutte le cose che un capo militare saggio e sollecito avrebbe ordinato e messo in pratica in una situazione del genere, il dittatore le ordinò e le mise ordinatamente in pratica. Ma una singolare prova di coraggio, di accortezza e di qualità non comuni fu l'avere mandato Marco Geganio con coorti scelte ad attaccare l'accampamento nemico dal quale risultassero usciti i nemici in maggior numero. Geganio, assaliti gli uomini rimasti nel campo, mentre intenti a seguire la sorte dei compagni in pericolo non si preoccupavano per se stessi e avevano trascurato di porre le sentinelle e i posti di guardia, conquistò l'accampamento ancora prima che i nemici si rendessero conto dell'attacco. Poi, com'era stato convenuto, fu dato il segnale col fumo; quando il dittatore lo vide, urlò che l'accampamento nemico era stato preso e ordinò di riferire ovunque la notizia. Già albeggiava e tutto era chiaro davanti agli occhi. Fabio si era buttato alla carica con la cavalleria e il console aveva fatto una sortita dal campo contro i nemici ormai in preda al panico. Il dittatore invece, dall'altra parte, assaliti i rinforzi e la seconda linea, aveva opposto ovunque al nemico che ripiegava incalzato da grida confuse e attacchi improvvisi, la fanteria e la cavalleria vittoriose. Ormai completamente circondati, avrebbero tutti pagato, fino all'ultimo uomo, il prezzo della nuova aggressione, se non fosse stato per Vezio Messio, un volsco famoso più per le sue gesta che per la sua stirpe, il quale rimproverò i suoi compagni che già si disponevano a cerchio: "Avete deciso", gridò, "di offrirvi al ferro dei nemici senza difendervi e senza vendicarvi? Ma allora perché mai avete preso le armi e fatto scoppiare una guerra senza essere provocati, voi che siete turbolenti in tempo di pace e fiacchi sul campo di battaglia? In che cosa sperate rimanendo qui fermi? Credete che ci penserà qualche dio a proteggervi e a portarvi via da qui? Con la spada bisogna aprirci la via. Avanti, guardate dove vado io e seguitemi, se ci tenete a rivedere le vostre case, i genitori, le mogli e i figli! Davanti non ci sono né muri né fortificazioni, ma solo uomini armati come voi. Per coraggio siete pari a loro, ma superiori per la forza della disperazione, che è l'ultima e la più potente arma." Detto questo, mise subito in pratica le sue parole. E i compagni, alzando di nuovo il grido di guerra, gli tennero dietro lanciandosi all'attacco là dove Postumio Albo aveva schierato le sue coorti. Riuscirono a far arretrare i vincitori fino a quando non sopraggiunse il dittatore in aiuto dei suoi che già si ritiravano: in quel luogo si concentrò l'intera battaglia. Le sorti del nemico sono affidate a un solo uomo: Messio. Da entrambe le parti molte sono le ferite, molte le stragi; ormai neanche i comandanti romani combattono illesi. Tuttavia solo Postumio, colpito da un sasso, lasciò la battaglia con il cranio fratturato. Ad allontanare dalla battaglia così in bilico il dittatore non bastò una ferita alla spalla, né furono sufficienti a Fabio un femore quasi inchiodato nel fianco del cavallo e al console un braccio troncato. Messio, trascinato dallo slancio attraverso i corpi esanimi dei nemici, con un gruppo di giovani fortissimi riuscì ad arrivare fino al campo dei Volsci che non era ancora stato preso. In quella direzione ripiega tutto l'esercito. Il console insegue i nemici mentre fuggono disordinatamente fino al vallo e assale il campo stesso e il vallo. Ma anche il dittatore, proveniente da un'altra direzione, conduce i suoi uomini in quel punto. L'assalto non è meno violento della battaglia. Si tramanda che il console abbia scagliato l'insegna dentro al vallo perché i soldati irrompessero con più ardore, e che sia stato lanciato il primo assalto per recuperarla. Il dittatore, dopo aver fatto breccia nella palizzata, aveva già spostato la battaglia all'interno dell'accampamento. Allora i nemici cominciarono da tutte le parti a buttare le armi e ad arrendersi. Così alla fine venne conquistato anche l'accampamento e tutti i nemici, eccetto i senatori, furono venduti come schiavi. Fu restituito a Latini ed Ernici quella parte del bottino che riconobbero come loro, l'altra parte il dittatore la vendette all'asta.

Le conseguenze

Lasciato il console a capo dell'accampamento, il dittatore tornò poi in trionfo a Roma dove rinunciò alla dittatura. Rendono triste il ricordo di questa gloriosa dittatura quanti raccontano che Aulo Postumio fece decapitare il figlio, pur vincitore, perché, attirato dall'occasione di farsi onore combattendo, aveva abbandonato senza l'ordine il suo posto. Preferisco non credere a una cosa simile, ed è lecito perché diverse sono le versioni tramandate. E c'è un argomento a favore: esistono ordini chiamati 'manliani' e non 'postumiani', in quanto il primo a dare un esempio così atroce era logicamente destinato a ottenere quel terribile titolo di crudeltà. A Manlio fu dato anche il soprannome di 'Imperioso', mentre Postumio non è marchiato da nessun funesto appellativo. Siccome il collega era assente, il console Gneo Giulio inaugurò il tempio di Apollo senza ricorrere al sorteggio. Quando, dopo aver congedato l'esercito, Quinzio fece ritorno a Roma, prese a male la cosa, ma inutilmente si lamentò in senato. In quell'anno, rimasto famoso per tali eventi, va aggiunto un episodio che in quel tempo sembrò non avere alcuna importanza per la potenza romana: i Cartaginesi, destinati a diventare nostri acerrimi nemici, inviarono allora per la prima volta un esercito in Sicilia per sostenere una delle due fazioni che si affrontavano nelle lotte tra Siculi.